29 maggio 2010

Pegasus Descending


Ti voglio credere – Elisabetta Bucciarelli

Ti voglio credere
TI VOGLIO CREDERE
di Elisabetta Bucciarelli
ed. Kowalski
“Parole antiche, pensa il Funi. Parole prima ancora dei concetti. Il garbo. Una precisa attitudine alla gentilezza. Un modo per esprimere l’attenzione ai gesti, minuziosa delicatezza. Non invadono. Non si sbilanciano oltre un ideale campo di appartenenza. Rispetto, cura, sensibilità” [pg. 51].
Non sono neanche tre righe ma danno la misura di quanto Elisabetta Bucciarelli curi il lessico e l’utilizzo di ogni singola parola nel suo nuovo romanzo, Ti voglio credere, che riparte quasi da dove il precedente Io ti perdono finiva. L’ispettore Vergani è accusata dell’omicidio volontario di una donna, una che probabilmente non meritava di vivere, ma come giustamente ricorda Gandalf in Il signore degli anelli, è bene non essere mai troppo precipitosi nell’emanare condanne. La Vergani non sa darsi pace, a maggior ragione per la sua incapacità di ricordare tutti i fatti accaduti in modo preciso e puntuale. Nella sua storia, o almeno nella parte che lei ricorda, ci sono troppe lacune, troppi punti oscuri che ognuno che le gira intorno cerca di riempire a suo modo. Lei è al centro delle attenzioni di tutti: della madre, dell’amica giudice, del suo avvocato difensore, di Angelo, di Achille, di Michele e di Righi. Di tutti. Tutti vogliono il suo bene, ma ognuno ribadisce la propria versione, quella più comoda o la meno scomoda, un perenne miscuglio in percentuali diverse tra verità e menzogna. La Vergani, all’opposto, non vorrebbe altro che una soluzione concentrata al cento per cento di verità, anche se dolorosa, anche se in grado di farle appioppare un ergastolo coi fiocchi. 
Parallelamente alla ricerca della verità dell’ispettore, prosegue senza sosta la normale attività della Questura di Milano. Mentre Pietro Corsari è impegnato a inseguire le dentiere di un gruppo di pazienti truffati da un dentista che ha scordato Ippocrate, Achille Maria Funi, da poco vincitore del concorso interno per la carica di ispettore, indaga sul suicidio di una giovane donna e la comparsa di strani gruppi di enormi croci qua e là per l’Italia. Sotto uno di questi improvvisati Golgota viene scoperto il cadavere di una seconda ragazza. Con la prima aveva in comune l’anoressia, spettro del corpo e dell’anima che la Bucciarelli indaga con competenza e pudore, ma senza nascondere sotto la superficie la dura realtà e alcuni dei motivi che possono indurre giovani donne a rifiutare il cibo in un processo di consunzione frutto, forse, di quello che siamo diventati o il mondo e la società ci hanno portato ad essere: “Il padre è un medico. […] Mi ha chiesto personalmente di non accomunare sua figlia alle altre. Mi prega di non parlarne più, come se si potesse impedire alla stampa di scrivere. Non vuole fare brutte figure con i colleghi.” “Questo ti deve far riflettere sui valori che ha passato alla figlia. […] Apparenza, immagine, quello che dicono gli altri” [pg. 262-263].
Abbiamo creato dei mostri, abbiamo innalzato dei totem, dei vitelli d’oro alla vanità, all’apparenza, all’esteriorità, pagando il prezzo del benessere dei nostri figli. Distruggiamo la serenità per i soldi, il successo, lo sculettare in televisione. E poi moriamo, poco alla volta, senza accorgercene. Una vita senza ricerca non merita d’essere vissuta, sosteneva Socrate. La ricerca e la curiosità ti portano, inevitabilmente, all’essenza delle cose, alla loro sostanza, scalfendo l’immagine esteriore. L’anoressia è un voler mostrare questa sostanza, un urlo disperato di chi non ce la fa più: attraverso la magrezza del corpo si mette in mostra agli occhi ciechi di chi ci sta intorno sostenendo di amarci l’aspetto della nostra anima, a voler ripercorrere la strada letteraria già tracciata da Dorian Gray. Al posto del dipinto c’è il corpo a mostrare a tutti quello che siamo e proviamo. E di questa sofferenza c’è chi si vergogna, probabilmente a causa della manifestazione estetica del proprio fallimento. Altri, invece, su ciò ci lucrano e la sfruttano per soddisfare i più biechi istinti. La Bucciarelli non fa sconti: con il suo stile perfetto, la meticolosa cura dedicata alla ricerca di ogni singola parola, le sue frasi nette e brevi e i suoi capitoli che sono pennellate di un impressionista, riesce a penetrare la superficie della realtà e del dolore come raramente mi era capitato di leggere, rendendomi particolarmente indegno e inadatto a scrivere questa recensione, assolutamente incapace di rendere merito alla sua complessità e raffinatezza.
La Vergani è uno dei personaggi più complessi della letteratura contemporanea italiana –  in questo caso è riduttivo parlare di genere -. Maria Dolores è così reale da starci antipatica nella sua cocciuta ricerca di una verità che poi non è neanche detto sia realmente vera, così come è insopportabile il suo modo di fare nei confronti del Funi, un uomo la cui fedeltà mi ricorda quella analoga del caneHachiko. Ma la Vergani è una persona, una donna, non un personaggio. Nessuno di noi è perfetto, perché dovrebbe esserlo un personaggio letterario? La Bucciarelli non opera, qui, alcuna riduzione narrativa, nessuna semplificazione che consenta a un soggetto di essere funzionale alla storia che si ha da raccontare. In questo caso la storia è il protagonista, la sua mente. E allora non abbiamo azione, inseguimenti e sparatorie, ma un’operazione di scavo continuo, una scrittura per rimozione, un po’ come sosteneva di fare Michelangelo con le sue sculture: togliere il superfluo per far emergere l’essenziale.